E’ stato ad ottobre del 2013, in occasione del mio viaggio di nozze con Chiara, che ho visitato Buenos Aires e una buona parte della Patagonia. Sono partito dalla capitale dell’Argentina fino ad arrivare alla “fine del mondo”, Ushuaia, in un paio di occasioni sconfinando anche in Cile.

Non è un mistero che da sempre sono innamorato del centro-sud America, della sua gente, della sua vitalità, delle sue contraddizioni, e dei suoi paesaggi, questa è stata per me un’esperienza interessante che mi ha permesso di entrare in contatto con la popolazione, e seppur per un breve periodo di condividerne i loro usi e costumi., l’ennesima conferma di come tutto quello che immagini da una vita poi, dal vivo, può essere solo meglio. E in effetti lo è sempre.

In queste righe voglio ripercorrere il tragitto fatto, le varie tappe, e condividere le sensazioni vissute.

Il sole è tramontato da un po’ quando atterro all’aeroporto internazionale di Trelew, che a differenza di quello di Buenos Aires fa percepire appieno tutte le sensazioni che dal primo giorno ti entrano dentro della Patagonia, inspiegabili finchè non le respiri davvero, finchè non sei lì e usi tutti i sensi; l’olfatto per sentire gli odori rudi e freschi e duri della natura; l’udito che non si abitua se non dopo giorni e giorni a quel genere di silenzio lì, che non ho mai più ritrovato altrove; il tatto per toccare erba secca e neve e ghiaccio, pareti ruvide e mani da stringere fredde e callose; il gusto per assaporare carne di agnello e verdura e pasta fatta in casa, emozioni che fanno tornare un po’ a casa mia; e la vista. La vista. La Patagonia è immensità, non finisce mai, è luce pura, abbaglia. La Patagonia è immensa e sola, messa lì per ricordarci che lì in mezzo non siamo niente. Anzi, forse non lo siamo da nessuna parte, ma lì ancora un po’ di meno. La Patagonia è solitudine e immensità.

A Trelew non arriva tanta gente, e quelle che arrivano tendono a “perdersi” nella sconfinata distesa pianeggiante che ne costituisce il paesaggio, così come del resto sono poche se non rare le auto che si incrociano lungo le strade, soprattutto a quell’ora tarda della giornata. Sono diretto verso Puerto Madrin, capoluogo vicino la penisola Valdés, ma non ho ancora un quadro di quello che mi aspetta. E’ solo la mattina dopo che posso farmi un’idea della particolarità del posto, gli unici edifici che svettano imponenti lungo la costa sono gli hotel per turisti, il resto è costituito da case di due piani al massimo, piccoli o grandi ristoranti dai quali si sente un intenso odore di carne arrosta, e da centri commerciali dall’aspetto omologato per effetto della globalizzazione. La cittadina, non molto grande, è costituita da strade dritte che si incrociano perpendicolari tra loro, e che vanno dalla periferia poco curata fino alla costa dove si trova l’oceano Atlantico. I locali, gli uffici, le case, le persone, tutto ciò che insomma riempie di vita questo luogo è circondato dalla vastità dell’oceano, e dalla pianura, in pratica dagli ampi orizzonti. Qui l’uomo ci ha messo del suo, e malamente, forse. Lungo la costa hotel, di fronte alla costa un paio di piattaforme petrolifere, la tendenza a non dover o voler rispettare certi posti, a volte, lascia perplessi. Nonostante la penisola Valdés sia riserva naturale e le speci animali e vegetali della zona siano protette, l’impressione è quella di vedere la mano dell’uomo che ha preso parte a qualcosa che non avrebbe dovuto sfiorare. Del resto, è solo la mia opinione.

Parto per raggiungere il parco marino di Punta Tombo, si trova a circa centosettanta chilometri dal capoluogo. Nel primo tratto, sulla Routa National 3, asfaltata, il viaggio sul piccolo pulmino prosegue spedito, mentre nel restante tratto di strada completamente sterrata, tipica della Patagonia, lo spostamento è tutto sommato comodo anche se non proprio veloce. Le interminabili recinzioni presenti lungo il percorso danno l’idea di quanto grandi siano gli appezzamenti di terreno a disposizione dei vari allevatori, che li utilizzano per il pascolo di migliaia di capi di bestiame, quasi come fosse allo stato brado. L’allevamento dei bovini, dei suini, e degli ovini in Patagonia è un’attività molto praticata e redditizia, viene svolta facendo crescere gli animali con tempi regolari, seguendo spesso la loro regolare crescita, in modo più naturale possibile, e mi riporta alla mente che la carne, sopratutto alla brace o “asado” come viene chiamata qui, è il piatto tipico della cucina Argentina, tenera, succosa, e gustosa proprio perché allevata in questo modo.

Arrivato in prossimità del parco devo sostenere ancora un tratto a piedi prima di poter ammirare da vicinissimo centinaia di esemplari di pinguino di Magellano. Molti maschi stanno eretti vicino le tane che hanno scavato nel terreno, con l’intento di mostrarle alle femmine da corteggiare al fine di accoppiarsi. E’ possibile osservarli bene nel loro habitat anche fino ad una distanza di cinquanta centimetri, ma devo tener conto di un paio di importanti raccomandazioni che mi sono state date, come non dar loro da mangiare per non contaminarne il territorio e non accarezzarli anche se si è tentati, in effetti si tratta di un ambiente fragile che va preservato il più possibile, scelto da questi animali stanziali per trascorrere la loro vita. Sempre all’interno del parco, ma in un altro tratto della costa, il territorio è di esclusivo dominio di leoni marini ed elefanti marini. Qui a differenza della grande colonia dei pinguini non è consentito avvicinarsi agli animali, molto territoriali e aggressivi, e lo spettacolo al quale assisto è stato a dir poco suggestivo. Sono realtà che in genere è possibile osservare solo nei documentari, ma viste in prima persona danno ancora di più lo spunto per riflettere sulla delicatezza della natura e sulla complessità degli ecosistemi, e tutto questo ripaga della fatica sostenuta lungo tutta la giornata.

Il giorno successivo, come quello prima, inizia molto presto perché quasi un altro centinaio di chilometri di strada sterrata ci separano dal capoluogo con Puerto Piràmides, situato sul golfo della penisola Valdés, dove è possibile avvistare la balena franca australe. Indosso il salvagente, con una piccola imbarcazione prendo il largo, e dopo quasi un’ora di navigazione e di attesa riesco a incrociare due balene con due piccoli al seguito, tra il classico sbuffare dell’acqua dovuto all’espirazione e il forte sbattere della coda durante la fase dell’immersione. Ricordo il momento carico di tensione per via delle dimensioni delle balene e della loro vicinanza, ed il primo pensiero è stato che l’imbarcazione avrebbe potuto in qualche modo risentirne. Ma è durato solo un breve lasso di tempo perché subito la tensione ha lasciato spazio alla spettacolarità dell’evento. che purtroppo per noi dopo un paio d’ore di avvistamento è rimasto comunque isolato, la curiosità di vedere anche le orche è rimasta infatti insoddisfatta, ma non posso davvero lamentarmi. Non è un’esperienza che in genere viene vissuta spesso, tutt’altro e vedere mammiferi di queste dimensioni di sicuro mette euforia.

Trascorro un terzo giorno a Puerto Madrin, non previsto, a causa di un problema all’aereo che mi deve portare a Ushuaia, e ne approfitto per vedere meglio la città, apprezzando la gradevole temperatura primaverile di queste latitudini. La permanenza nella penisola Valdés termina con le due escursioni, e con l’inconveniente logistico poi risolto nel pomeriggio, e mi permette di partire poco prima delle 20 invece che in mattinata come da programma, ed anche se abbiamo perso un giorno ad Ushuaia, l’inatteso imprevisto è ciò che ogni volta rende bello un viaggio, singolare nel suo genere proprio perché pieno di unicità.

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